Innanzitutto, ben trovati e buon anno da parte di Uniaudit.
In un anno dove abbiamo imparato a conoscere il significato del termine infodemia, o comunque a subirne più o meno consapevolmente gli effetti, potrebbe essere capitato che ciò abbia tolto spazio e visibilità a temi, che seppur diversi e lontani nei contenuti, possono rivestire una certa rilevanza e sensibilità per aziende e soggetti che ne gravitano attorno.
Poniamo quindi un breve richiamo alla legge 5 novembre 2021, n.162 recante “Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, e altre disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo”, in vigore dallo scorso 3 dicembre a seguito di pubblicazione in G.U. n. 275 del 18 novembre 2021.
La legge, dai più denominata legge sulla parità salariale, contiene una serie di modifiche ed integrazioni al codice delle pari opportunità (d.lgs. 198/2016), con una serie di interventi atti a contrastare il fenomeno del gender pay gap, mirando a raggiungere la parità salariale di genere in ambito lavorativo introducendo anche nuove misure di pari opportunità tra uomo e donna.
Inserita pure nel contesto della minor quota di donne occupate[1], la differenza retributiva è un gap di genere alimentato da discriminazioni, che si inserisce tra le principali forme discriminatore che comunemente sono chiamate allocativa e valutativa.
La prima sta a indicare la differente allocazione di donne e uomini nel mercato del lavoro, per cui è più probabile trovare un maggior numero di donne nelle occupazioni meno redditizie; la seconda riguarda la minor valutazione del lavoro delle donne rispetto a quello degli uomini anche quando svolgono gli stessi compiti, con capacità quindi comparabili.
Tra le novità introdotte dal provvedimento: l’obbligo di redigere (almeno ogni due anni) e inviare telematicamente (entro il 31 dicembre) al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali il rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile esteso alle aziende con più di 50 dipendenti – e non più 100 – contenente indicazioni circa salari, inquadramento contrattuale, le funzioni svolte da ciascun lavoratore occupato, congedi e reclutamento. Eventuali inesattezze e omissioni del rapporto saranno sanzionate dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro.
Inoltre il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali pubblicherà, in una apposita sezione del proprio sito internet istituzionale, l’elenco delle aziende che avranno trasmesso il rapporto ed anche l’elenco delle aziende chiamate a trasmetterlo ma che non hanno provveduto a farlo.
La legge va ad ampliare il concetto di discriminazione indiretta sui luoghi di lavoro mediante comportamenti o disposizioni che pur apparendo neutri, pongono in realtà i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di svantaggio rispetto a quelli dell’altro sesso.
In particolare, vengono inseriti tra le fattispecie discriminatorie anche gli atti di natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro che comportino una posizione di svantaggio rispetto agli altri lavoratori o una limitazione nella partecipazione alla vita aziendale o all’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera.
La norma va inoltre ad ampliare l’ambito soggettivo su cui il codice delle pari opportunità potrà trovare applicazione andando ad estendere la nozione di discriminazione anche agli atti compiuti nei confronti di “candidate e candidati in fase di selezione del personale” e non più solamente alle lavoratrici e ai lavoratori già assunti.
Si introduce, inoltre, a decorrere dal 1° gennaio 2022, una certificazione della parità di genere il cui possesso consentirà alle imprese di beneficiare di un esonero dal versamento dei contributi previdenziali, nel limite dell’1% e di 50.000 euro annui per ciascuna azienda.
Le aziende saranno quindi chiamate a certificare le condizioni contrattuali offerte al proprio personale, e per il tramite di questo documento si attesteranno le politiche e le misure concretamente adottate dal datore di lavoro per ridurre il divario di genere, quali, ad esempio:
- opportunità di crescita in azienda;
- uguaglianza salariale a parità di mansioni;
- politiche di gestione delle differenze di genere;
- tutela della maternità;
Con un successivo decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, saranno poi definiti
(i) i parametri minimi per il conseguimento della certificazione della parità di genere da parte delle aziende;
(ii) le modalità di acquisizione e di monitoraggio dei dati trasmessi dai datori di lavoro e resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali;
(iii) le modalità di coinvolgimento nel controllo e nella verifica, del rispetto dei parametri indicati, delle rappresentanze sindacali aziendali e delle consigliere e dei consiglieri di parità regionali, delle città metropolitane e degli enti di area vasta di cui alla L. n. 56/2014; (iv) le forme di pubblicità della certificazione della parità di genere.
A detto fine, inoltre, verrà istituito, presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, un Comitato tecnico permanente sulla certificazione di genere nelle imprese.
Oltre agli sgravi contributivi per le aziende, le cui risorse pubbliche ad oggi stanziate riguarda solamente l’annualità 2022 prevedendo un fondo massimo di Euro 50 milioni, si affiancano altri benefici, tra i quali la legge riconosce un punteggio premiale nella valutazione da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali ai fini della concessione di aiuti di stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti.
Ulteriormente, anche nell’ambito dei bandi di gara, negli avvisi o negli inviti relativi a procedure per l’acquisizione di servizi, forniture, ecc., il possesso di una certificazione di parità di genere dal punteggio più alto determinerà un miglior posizionamento in graduatoria dell’azienda partecipante.
In attesa del Decreto che delineerà gli spazi di manovra entro cui muoversi, guardiamo positivamente l’operato del legislatore, che per quanto non risolutivo, muove un passo verso la giusta direzione volta al contrasto delle discriminazioni di genere ad oggi presenti. Ricordiamo infatti, dati ISTAT di marzo 2021, che in Italia, la retribuzione oraria è pari a euro 15,2 per le donne e a 16,2 per gli uomini; il differenziale retributivo di genere è più alto tra i dirigenti (27,3%) e i laureati (18%). Inoltre, su 101.000 nuovi disoccupati, 99.000 sono donne[2].
Essendo questi i primi giorni del nuovo anno e volendo porgere uno sguardo di fiducia e positività per quanto ci appresteremo ad affrontare, voglio comunque ricordare che a livello europeo l’Italia, senza ritenersi soddisfatta ed appagata, ha avviato un percorso di contrasto alle differenze di genere che l’ha portata, secondo i dati del 2019 (fonte Eurostat) al terzo posto quale Paese con il minor divario retributivo di genere (4,7%[3]) rispetto al resto dei Paesi della UE.
Il divario retributivo di genere nell’UE è del 14,1% ed è cambiato solo in minima parte nell’ultimo decennio. Significa che le donne guadagnano in media il 14,1% in meno all’ora rispetto agli uomini.

[1] Si rinvia al report sul percorso lavorativo e al tasso di occupazione per la popolazione in età da lavoro, svolta dall’ISTAT per l’annualità 2019, https://www.istat.it/donne-uomini/bloc-2b.html?lang=it.
[2] https://www.istat.it/it/files/2021/03/REPORT_STRUTTURA_RETRIBUZIONI_2018.pdf
[3] https://ec.europa.eu/info/policies/justice-and-fundamental-rights/gender-equality/equal-pay/gender-pay-gap-situation-eu_en e https://ec.europa.eu/eurostat/databrowser/view/sdg_05_20/default/table?lang=en